La buona notizia è che ogni giorno nel mondo sopravvivono 12.000 bambini in più rispetto a venti anni fa. Quella cattiva è che siamo solo a metà strada per raggiungere almeno il quarto degli otto Obiettivi del millennio: la riduzione di due terzi della mortalità infantile rispetto 1990. I dati arrivano dall’Unicef che prima dell’inverno ha reso noto il Rapporto sulla mortalità infantile stilato dalle Nazioni Unite.
I dati dell'Onu confermano una progressiva tendenza alla riduzione del numero di bambini che, nel mondo, non giungono a compiere il quinto anno di vita. Nel 2010 si sono registrati 8,1 milioni di casi contro i 12,4 milioni del 1990, per un tasso di mortalità infantile medio di 60 ogni mille (erano 89 nel 1990). Negli ultimi venti anni quindi il numero dei decessi tra i bimbi fino a 5 anni è diminuito di un terzo. Ma la tragedia rimane: “ogni giorno continuano a morire 22.000 bambini per cause che in larga parte potrebbero essere evitate” precisa una nota dell’Unicef. Si tratta infatti nel 18% dei casi di complicanze legate alla polmonite e nel 15% di episodi di diarrea. E il 70% di queste scomparse avviene nel primo anno di vita.
Se è vero che i successi maggiori si sono registrati tra il 2000 e il 2009, è però evidente che i progressi non avvengono al ritmo che sarebbe necessario per raggiungere l’Obiettivo di sviluppo del millennio numero 4: ridurre entro il 2015 la mortalità infantile di due terzi rispetto al livello del 1990.
Occorre dunque imprimere un’accelerazione soprattutto nelle zone del mondo in cui il fenomeno è più marcato, e cioè Africa, Asia meridionale e Oceania, e in particolare nei paesi in cui si concentra quasi la metà degli episodi: India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Cina e Pakistan. Solo l’India e la Nigeria rappresentano quasi un terzo del totale, rispettivamente con il 21% e il 10% dei casi.
I tassi più elevati continuano a essere quelli registrati in Africa Subsahariana, dove 1 bambino su 8 non arriva a cinque anni: un evento 20 volte più frequente rispetto alla media (1 su 167) dei Paesi in via di sviluppo. Mentre in Asia meridionale l’incidenza è di poco inferiore: 1 su 14.


